Urgent Evoke

A crash course in changing the world.

I PROBLEMI DI MILANO



L'epoca attuale pone le grandi città globali di fronte a nuovi importanti dilemmi. Esauritasi la difficile fase della deindustrializzazione, con i suoi precipitati di crisi e degrado urbano, oggi molte città globali, quelle ben inserite nei circuiti dell'economia internazionale e dotate di un'adeguata infrastruttura di servizi, sembrano sperimentare una rinnovata attrattività. Il disorientamento e il senso di frustrazione tipici di una fase caratterizzata da elevata disoccupazione, da progressivo impoverimento della popolazione, dal crollo demografico, lasciano il posto a una forte ripresa degli investimenti immobiliari, alla rifioritura delle attività culturali, a una riconquistata desiderabilità delle grandi città talvolta segnalata anche dal ripopolamento dei centri. La globalizzazione economica e culturale rinforza queste tendenze, sia perché i poteri di governo delle reti si concentrano proprio nelle città globali, sia perché si riduce, contemporaneamente, la capacità regolativa degli Stati nazionali. Le città diventano, così, i veri centri del potere economico e finanziario, ma anche i punti di irradiazione delle mode e dei gusti culturali, nonché i luoghi di concentrazione dei servizi e dei consumi di maggiore qualità e prestigio. Lo sviluppo della funzione di nodo costituisce, tuttavia, la fonte di nuovi e cruciali dilemmi. Secondo una lettura accreditata (Sassen 1991), l'inserimento nelle reti globali rischia di far esplodere la società locale, determinando una pronunciata tendenza al dualismo sociale, all'aumento delle disuguaglianze economiche e sociali, alla segregazione delle popolazioni più svantaggiate. Se questo pare il modello sociale proprio delle città americane, quelle europee sembrano maggiormente in grado di trovare un equilibrio tra integrazione esterna e integrazione interna, facendo leva sulla maggiore articolazione del tessuto sociale e sul carattere misto delle forme di insediamento territoriale. Milano è sicuramente collocata al centro di queste tendenze. Al pari di altre città europee, non soffre certo di perifericità o di marginalità economica e finanziaria. Anzi, per diversi aspetti alimenta l'attuale ripresa delle città globali attraverso i suoi settori economici di punta: la moda, il design, l'architettura. Le diverse migliaia di metropolitan businessman che ogni mese passano per Milano vi veicolano i linguaggi, i codici, i consumi e gli stili di vita che caratterizzano la rete globale. Essa eredita, inoltre, dal passato, una struttura sociale assai equilibrata, fondata su un tessuto economico e sociale assai articolato ed eterogeneo che ha consentito, sino ad ora, di assorbire senza gravi contraccolpi e devastanti conflitti sociali le crisi e le difficoltà determinate dalla de-industrializzazione. La povertà e l'esclusione sociale, anche nelle fasi "calde" di più intensa trasformazione (compresa quella attuale, segnata dallo sviluppo della città globale), sono rimaste fenomeni non eccessivamente diffusi. Tuttavia, di ripresa urbana, a Milano, sembra assai difficile parlare. Certo, alcune tendenze al miglioramento sono evidenti: una ripresa dell'attività immobiliare nelle aree centrali e in quelle deindustrializzate, una rinnovata capacità di iniziativa imprenditoriale che appare più diffusa e più convinta dei suoi mezzi, l'intrapresa di alcune operazioni di rinnovo urbano, una razionalizzazione amministrativa che ha migliorato, dopo anni di sbandamento, il funzionamento della burocrazia pubblica. Ciò nonostante, il quadro appare caratterizzato da un certo peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini, dalla crescente difficoltà ad affrontare situazioni lavorative e familiari che sembrano oggi più aperte alle scelte individuali che in passato ma, contemporaneamente, più esposte all'incertezza e alla vulnerabilità. Se, per alcuni, l'attuale transizione sociale vede l'aumento delle opportunità e delle chance di successo, per molti altri essa è segnata soprattutto dalla moltiplicazione dei rischi e delle difficoltà. Alla crescente integrazione nelle reti economiche e finanziarie internazionali, Milano ha sinora contrapposto un'ostinata tendenza al peggioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti. La popolazione continua il trend alla diminuzione, appena compensata dal massiccio arrivo di decine di migliaia di immigrati extracomunitari che, a sua volta, pone gravi problemi di coesistenza che le politiche urbane stentano a contenere e risolvere. L'età media dei cittadini sale inesorabilmente, mentre stenta a recuperare terreno la natalità e la fornitura di servizi adeguati per l'infanzia e la vecchiaia. Il mercato abitativo respinge sempre più lontano le nuove generazioni, preparando un futuro incerto alla inner city, e predisponendo strozzature finanziarie e organizzative da cui difficilmente le nuove generazioni potranno passare senza gravi rinunce e insoddisfazioni. Anche il ceto medio e professionale, che per decenni ha costituito l'ossatura fondamentale della città, sembra permeato da inquietudini, ansietà, senso dominante di incertezza. Milano rischia così di non approfittare adeguatamente dei vantaggi provenienti dal suo essere global city. Se, da un lato, sviluppa sempre meglio le sue funzioni di interconnessione globale, dall'altro non riesce a convogliare adeguatamente le risorse intercettate in modo da migliorare la sua coesione sociale. Non perché la città soffra di arretratezza sociale e politica. Rispetto ad altre città globali (soprattutto quelle extra europee), Milano parte, infatti, da una posizione di vantaggio, beneficiando di una compatta e fitta infrastrutturazione sociale capace di assimilare e ridurre le spinte alla polarizzazione sociale. Fatta eccezione per situazioni particolari, le periferie di Milano non sono segnate da acuti fenomeni di segregazione urbana, come accade a New York e a Parigi. La crisi industriale degli anni Ottanta non ha creato pesanti contraccolpi sociali ed economici, nonostante la forte concentrazione di lavoro operaio nella periferia milanese. La sicurezza della città, nonostante i reiterati allarmi, non è mai sembrata davvero minacciata da una criminalità che non supera i livelli consueti di diffusione e pericolosità. Nonostante questi elementi a favore, la sfida più recente della globalizzazione trova Milano, sorprendentemente se si guarda al suo passato, più vulnerabile e impreparata proprio nei suoi tradizionali punti di forza: l'articolazione del suo tessuto sociale e la presenza di una fitta rete di sostegno per le situazioni di crisi. Cosa sta accadendo? Come è possibile che proprio oggi, sulla soglia di una possibile ripresa non solo economico-finanziaria ma anche sociale e culturale, una città dinamica e proiettata nel futuro come Milano segni il passo? Quali equilibri si sono rotti perché la crescita economica della città proceda in modo potenzialmente disgiunto dal suo livello di qualità sociale? Per poter rispondere in modo adeguato a questi interrogativi, è utile volgersi innanzitutto indietro e osservare come Milano ha saputo gestire, senza creare gravi lacerazioni sociali, le fasi più critiche del suo recente passato. Le prove non sono mancate, ma la resistenza e l'adattabilità della città ne hanno consentito il superamento. Sino ad oggi.

L'emergere della società del rischio

L'ultimo decennio è caratterizzato da un generale a****tamento dei percorsi di crisi della fase precedente, dal progressivo inserimento di Milano entro le reti dell'economia globale, ma anche dalla comparsa di segni di indebolimento che colpiscono alcuni dei meccanismi di diluizione che avevano evitato in passato l'acuirsi delle fasi di crisi. Per alcuni versi, ora è proprio la stabilità stessa del tessuto sociale della città a venir compromessa in alcuni elementi portanti. Si tratta di una crisi sotterranea, poco visibile, che non produce gravi conflitti sociali, ma che sta minando alla radice alcuni elementi base della coesione sociale della città. Si assiste, sul versante demografico, a una maggiore stabilità, anche se la dinamica resta complessivamente negativa. La popolazione diminuisce ancora nel core (-8,3%) mentre aumenta leggermente solo nella seconda cintura (+1%). Si tratta di mutamenti di equilibrio assai modesti, che non modificano più di tanto il rapporto ormai stabilito tra centro e area metropolitana. L'area metropolitana ha già assunto da tempo un peso demografico assai maggiore del centro, segno della presenza di un hinterland capace di sviluppare dinamiche insediative e produttive relativamente autonome rispetto a quelle del core. Si tratta, comunque, di un'area ormai matura, con dinamiche espansive molto contenute e punti di precipitazione negativa. Nel complesso, l'area milanese non è riuscita, sinora, a invertire la dinamica demografica recessiva connessa alla deindustrializzazione, come è avvenuto, invece, a cominciare dagli anni Novanta, per gran parte delle altre città globali europee: il segno di una più generale difficoltà ad accompagnare l'inserimento nelle reti globali con una rivitalizzazione del centro urbano, in grado di attrarre in modo selettivo i gruppi sociali emergenti, portatori di innovazione in campo sia economico, sia culturale. Né il massiccio flusso migratorio proveniente dai Paesi extraeuropei e dall'Europa dell'Est è in grado di invertire tale tendenza, ma serve giusto a mitigarla: se non considerassimo i 200.000 abitanti di Milano di immigrazione extracomunitaria (Fondazione I.S.MU. -Provincia di Milano 2004), infatti, la popolazione milanese sarebbe oggi assai inferiore a quella del 1951, con un tasso di decremento del 15% nell'ultimo decennio. La difficile situazione demografica di Milano è correlata all'esplosione di un'inedita quanto difficile "questione anziani". L'invecchiamento della popolazione continua, infatti, allo stesso ritmo esasperato dei decenni precedenti, rendendo la popolazione anziana una componente ormai rilevante per la città: nel 2001 gli over 65 sono un terzo della popolazione in età lavorativa, mentre aumentano in modo deciso gli over 75 (sono ora un decimo della popolazione). Di conseguenza, aumentano i single (ormai rappresentano oltre un terzo delle famiglie milanesi), prevalentemente costituiti da persone oltre i 65 anni di età. Le ondate migratorie degli ultimi anni riescono soltanto ad attenuare il fenomeno (l'età mediana degli immigrati è 32 anni, ma tende a salire con l'aumentare dell'anzianità migratoria). All'invecchiamento progressivo si accompagna, negli ultimi anni, una stabilizzazione dei tassi di natalità e di fertilità, che mostrano anzi piccoli segnali di ripresa. È su questo versante che si fa sentire l'effetto dell'immigrazione: mentre il numero medio di figli per le donne italiane residenti a Milano è ormai costantemente sotto l'unità, le donne nate nei Paesi extracomunitari hanno in media due figli e mezzo. L'esito è che il 21% dei bambini nati nel 2002 aveva la madre extracomunitaria, e il 26% almeno un genitore straniero (Comune di Milano - Settore Statistica 2003a, 2003b, 2003c). Quali effetti produce la dinamica demografica sul piano sociale? La conseguenza più rilevante è un deciso peggioramento del carico sociale delle famiglie, che aumenta notevolmente per effetto congiunto dell'invecchiamento e della modesta ripresa della natalità: ormai le persone a carico sono la metà di quelle in età lavorativa (un bambino o un anziano ogni due adulti in età lavorativa); aumentano anche i nuclei familiari composti da una sola persona (si tratta in gran parte di donne anziane), in cui spesso si sommano maggiore fragilità fisica, basso reddito, debolezza della rete familiare. Basta questo semplice dato demografico a mostrare i contorni dell'aumentato stress finanziario delle famiglie milanesi, che sempre più difficilmente riescono ad assorbire internamente le tensioni, le esigenze insoddisfatte, i disagi dei soggetti più fragili. Il rovesciamento delle tendenze precedenti avviene anche sul versante occupazionale, dove il declino degli occupati (-11% nel decennio) non comporta più, a differenza di quanto accaduto in precedenza, un aumento della disoccupazione. Si assiste, anzi, a un certo miglioramento, segnalato dall'aumento del tasso di attività femminile in provincia (si passa dal 40% nel 1995 al 43% nel 2003) e dalla parallela diminuzione del tasso di disoccupazione (dal 7% del 1993 al 4,5% del 2003). L'assorbimento della deindustrializzazione si è verificato grazie a rilevanti trasformazioni avvenute nell'assetto produttivo e nell'organizzazione del mercato del lavoro, segnalate, da un lato, dall'aumento dell'occupazione nei settori maggiormente collegati alle funzioni di nodo svolte dalla città (aumentano i servizi alle imprese, il credito, le assicurazioni) e, dall'altro, dall'aumento del lavoro atipico. Due dinamiche per alcuni versi divergenti che determinano, al pari di quanto accaduto in altre città globali, una tendenza alla polarizzazione sociale, all'aumento della distanza economica e sociale tra chi entra nella fascia alta del mercato del lavoro e chi, invece, coniuga la precarietà lavorativa con una bassa qualificazione e un salario modesto. In sintesi, è evidente che la fase più recente vede il progressivo indebolimento di elementi che in passato hanno garantito la stabilità sociale di Milano: la stabilità e capacità delle famiglie di assorbire i fattori di stress per un verso, la presenza di un ampio ceto medio "garantito" e provvisto di un adeguato reddito, per l'altro. Oggi entrambi questi elementi di stabilità entrano in crisi. Le famiglie assistono a un peggioramento delle loro condizioni di vita, segnalato innanzitutto dagli elevati indici di carico. Inoltre, conoscono una modificazione profonda dei loro assetti organizzativi, mostrati dall'aumento dei single e dal cresciuto tasso di attività femminile. I ceti medi conoscono, dal canto loro, una progressiva destabilizzazione della loro condizione di sicurezza, a causa dei fenomeni di polarizzazione sociale cui sono soggetti (erosione dei salari medio-bassi, aumento dei differenziali di reddito e via dicendo) e della crescita di gruppi professionali collocati, rispettivamente, ai vertici della scala sociale (professionisti, tecnici, dirigenti, ecc.) e alla sua base (lavoratori dei servizi, operatori di call center, ecc.). Con il nuovo secolo, dunque, la questione sociale assume un aspetto in parte inedito. Essa non può essere interpretata nei termini tradizionali di un conflitto di classe (l'asse up/down), né nei termini altrettanto tradizionali di un allargamento dell'esclusione sociale (l'asse in/out). A esserne colpiti non sono più soltanto i soggetti collocati ai piani bassi o ai margini della scala sociale, ma anche gruppi sociali posti al centro della struttura sociale. Più che a un impoverimento dei ceti medi, si assiste a una loro destabilizzazione, determinata dall'indebolimento dei principali meccanismi di assorbimento dei punti di tensione: la stabilità professionale, l'adeguatezza dei salari ai livelli acquisiti di consumo, la densità dei legami familiari, la sicurezza dei sistemi pubblici di tutela. Si diffonde così una condizione caratterizzata dalla vulnerabilità, dall'instabilità, dall'esposizione a nuovi rischi sociali per i quali i meccanismi tradizionali di integrazione di tipo sociale (la famiglia, il lavoro) e politico (il welfare) non sono in grado di offrire adeguata protezione, o la offrono in modo sempre meno esteso e generoso.

La disarticolazione del tessuto sociale

La breve ricostruzione effettuata ci conduce a una prima conclusione: le attuali dinamiche sociali ed economiche, riflettendo anche la collocazione che la città va assumendo all'interno del sistema economico globale, ne stanno ridisegnando in profondità la struttura. Se per molti cittadini il graduale passaggio alla "città globale" coincide con l'ampliamento delle opportunità e delle chance di vita, con un aumento delle risorse economiche e di capitale sociale e culturale a disposizione, per altri la transizione in atto è accompagnata dalla diffusione delle situazioni di fragilità, dalla destrutturazione del tessuto sociale, dall'esposizione a nuovi rischi sociali. Si tratta di un processo dal duplice volto, tipico delle fasi in cui si prepara il terreno per una forma inedita di organizzazione sociale della città. Più che di crisi, ha senso parlare di un processo di disarticolazione/riarticolazione sociale, in cui al graduale dissolvimento dell'organizzazione sociale tipica della città industriale si sovrappongono disordinatamente nuove forme di organizzazione della vita quotidiana, delle relazioni lavorative, dei rapporti di reciproco sostegno. Siamo, dunque, entrati in una fase a elevata problematicità, in cui il cambiamento non solo avviene a velocità diverse, esponendo in modo variabile la popolazione alla nuova organizzazione della società, ma procede anche attraverso salti e indietreggiamenti. Esso non dipende da una causa unica. Non esiste un motore unitario del cambiamento sociale in corso. Sono coinvolte contemporaneamente la struttura economica, quella sociale e quella demografica della città ed è arduo, se non impossibile, identificare quale sia la causa determinante. Non ha senso rifugiarsi in spiegazioni semplicistiche, imputando alla globalizzazione economica o alla crisi della famiglia, la responsabilità dei disagi e delle difficoltà emergenti. In questo processo di disarticolazione e riarticolazione si pongono, però, le premesse per il dispiegarsi di una nuova questione sociale. Una "questione" che non assume i tratti tipici di una vera e propria crisi sociale. Non stiamo parlando, per intenderci, dell'emergere di un'area diffusa e crescente di disagio conclamato e/o di esclusione sociale (anche se non mancano segnali di una notevole concentrazione, a Milano, anche di problemi di disagio conclamato e di esclusione sociale). Il processo che stiamo considerando ha un impatto meno drammatico, anche se, proprio perché colpisce in profondità i meccanismi di assorbimento dei punti di tensione esistenti, appare maggiormente carico di insidie per la futura coesione sociale della città. Una disarticolazione, dunque, che non solo frammenta il tessuto sociale, ma contribuisce anche a creare nuove forme di disuguaglianza e un senso diffuso di incertezza e disorientamento. Per ora, si esprime soggettivamente nella diffusione di difficoltà di carattere ordinario, riguardanti l'organizzazione della vita quotidiana di strati ampi della popolazione: una "sofferenza senza disagio" dai contorni sfumati, ma alquanto diffusa. Sul piano oggettivo, essa trova riscontro nei cattivi andamenti demografici, nonché nei molteplici indicatori problematici che andremo individuando nelle prossime pagine. Una vulnerabilità, insomma, sinora silenziosa che, tuttavia, mina il senso di sicurezza e la stabilità di cittadini e di ceti sociali che si sono considerati da sempre al riparo dall'incertezza riguardo il loro futuro e, ancor più, riguardo il loro presente. Il complesso processo di disarticolazione sociale di cui abbiamo parlato può essere scomposto in cinque processi paralleli:

1) lo sviluppo di nuove polarizzazioni sociali e territoriali, che indicano come la struttura sociale ed economica della città si stia sviluppando lungo nuovi assi e producendo nuovi dualismi;

2) un aumento dell'instabilità sociale, frutto non solo dei diffusi processi di precarizzazione del lavoro, ma anche della destabilizzazione abitativa che colpisce molte famiglie e della maggiore fragilità familiare;

3) un crescente sovraccarico funzionale delle famiglie, che le sottopone a un forte stress economico e organizzativo, in presenza di un aumento esponenziale dei bisogni di cura e di assistenza e dell'indebolimento delle capacità di coping delle famiglie stesse;

4) la crescita della città multietnica, determinata dalla massiccia immigrazione extracomunitaria degli ultimi anni: un processo al tempo stesso incontrollabile e sinora scarsamente presidiato dalle politiche pubbliche, alla fonte di intense e diffuse difficoltà di inserimento sociale che si ripercuotono sull'assetto complessivo della città;

5) un aumento della paura e dell'insicurezza percepita nella popolazione, anche in assenza di un oggettivo aumento della pericolosità del territorio urbano, che segnala sia una perdita di radicamento nel territorio sia un senso di incertezza e di esposizione al rischio derivante dalle mutate condizioni della vita quotidiana.

Cinque vettori della destabilizzazione sociale, da cui emerge non solo la problematicità del vivere a Milano, ma anche quali indirizzi di policy possono essere identificati per conservare e rinnovare la coesione sociale della città.

La coesione sociale in questione

Milano è una città abituata ad affrontare il cambiamento, cogliendone le opportunità che si rendono disponibili e al tempo stesso diluendone gli elementi di rischio. La profonda trasformazione in atto non costituisce dunque, considerata in sé, un elemento problematico, o almeno più problematico di quanto Milano abbia già saputo affrontare in passato. Tanto più che, almeno sinora, non sono emerse tendenze generalizzate alla segregazione sociale o all'impoverimento di quote significative della popolazione milanese. Da questo punto di vista, Milano resta una città abbastanza coesa, dotata di un buon equilibrio sociale ed economico, priva di conflitti laceranti e affrancata dalle tendenze dualistiche emergenti in altre città globali. In essa, però, si sviluppa un graduale indebolimento degli elementi che, in passato, hanno garantito, anche nelle fasi di cambiamento più drammatico, il mantenimento della coesione sociale. Sicché, oggi, la città si trova esposta a trasformazioni con minori capacità di riassorbire, o diluire, le tensioni che a tali cambiamenti sono inevitabilmente connesse. Non preoccupano le crisi in sé, dunque, quanto la capacità di gestirle. Milano ha riassorbito le crisi del passato grazie a tre principali meccanismi di diluizione: un sistema produttivo eterogeneo e diffuso territorialmente, una struttura sociale articolata più in senso orizzontale che verticale, la solidità e la tenuta del sistema familiare. Tutti questi meccanismi sono oggi soggetti a tensioni, a un affaticamento che ne compromette, almeno parzialmente, il funzionamento, esponendo a una nuova fragilità non solo le cosiddette quote deboli della popolazione ma anche parti significative del ceto medio. Milano è una città sempre più diseguale, in cui la distanza sociale tra i ceti si accresce progressivamente, mettendo sotto pressione soprattutto i gruppi sociali centrali, quelli tradizionalmente al riparo dalle tensioni del ciclo economico e delle fasi di crisi. Oggi il ceto medio milanese si riscopre non solo relativamente più povero che in passato, ma anche più instabile e vulnerabile. L'indebolimento del sistema di tutela precedente (costruito intorno alla stabilità del rapporto di lavoro e alle garanzie fornite dal welfare state) crea non solo conflitti e proteste (come quelle che interessano ciclicamente il trasporto pubblico), ma anche un senso di insicurezza e di ansia che si traduce in difficoltà progettuali, nell'assenza di spirito imprenditoriale, nella ricerca di sicurezze fittizie. Milano è, al tempo stesso, una città sempre più vecchia, insidiata da una crisi demografica solo parzialmente compensata dall'immigrazione extracomunitaria. La crisi ha naturalmente cause vicine e lontane. Ma tra esse hanno un peso rilevante le strozzature del sistema abitativo e l'assenza di una politica territoriale sensibile alla problematica demografica, che sospinge sempre più all'esterno, ormai oltre la seconda cintura suburbana, le generazioni più giovani. La questione demografica incide sulla città a diversi livelli: nella difficoltà a sviluppare una nuova attrattività che riporti nella città i giovani maggiormente propensi all'investimento e alla progettualità, nella carenza di proposte culturali e artistiche, nel maggior carico sociale che viene così a gravare sulle famiglie residenti. In terzo luogo, Milano è una città sempre più individualizzata, composta da individui isolati che non fanno affidamento su una rete stabile e fitta di relazioni fiduciarie di tipo familiare. L'aumento dell'instabilità lavorativa e di quella familiare consegna le chiavi del futuro sempre più in mano alle capacità individuali di cogliere e fronteggiare strategicamente opportunità e rischi. Tuttavia, l'individualizzazione crescente della città non trova riscontro nel modo in cui è organizzata la vita quotidiana, ancora in gran parte affidata alla tenuta, sempre meno facile da garantire, delle reti familiari. L'assenza di una rete capillare e accessibile di servizi alla persona irrigidisce le traiettorie di vita di molti milanesi, tra la protezione offerta dalle famiglie e la solitudine della vita da single. All'infuori di quanto viene reso disponibile dalle famiglie di appartenenza, mancano risorse per investire in formazione e in attività economiche, per costruire un progetto familiare e abitativo, per fronteggiare il bisogno di cure costanti. La spinta all'individualizzazione che proviene dal sistema economico non ha trovato, sinora, una corrispondente risposta nell'organizzazione del sistema sociale e, in particolare, nell'assetto del welfare locale. Infine, Milano è una città apparentemente più insicura. Lo scarto esistente tra i dati oggettivi sulla sicurezza urbana e la percezione soggettiva degli abitanti merita una riflessione. Esso rispecchia non soltanto propensioni mediatiche e politiche, ma anche un' inquietudine connessa all'abitare in contesti sempre più differenziati e sempre meno noti e controllabili, allo sviluppo di una maggiore instabilità lavorativa e abitativa, alla perdita di riferimenti territoriali e di un'omogeneità culturale guadagnata a fatica attraverso quei processi di coesione sociale che tanto bene hanno operato in passato. Un senso di insicurezza che apre a esiti ambigui: può favorire condotte difensive e riparative, oppure offrire il carburante per la mobilitazione proattiva di nuove risorse e progetti.

Locus vs. globus

Quale rapporto si instaura tra queste tendenze e quelle connesse all'inserimento di Milano nelle reti globali? Quale interdipendenza nasce tra il nodo della rete globale e il luogo fisico e sociale che lo ospita? Quale, tra la configurazione delle interconnessioni interne ed esterne che sono funzionali all'attività di rete e i meccanismi di coesione sociale che abbiamo ricostruito e di cui abbiamo evidenziato le criticità? Si potrebbe rispondere che questa interdipendenza non sia affatto scontata e che i problemi di coesione sociale che Milano sta affrontando non intervengano direttamente e immediatamente nel funzionamento della città come nodo della rete globale. Come se esistessero due città parallele: quella globalizzata e produttiva da un lato, e quella residenziale, abitata e vissuta dall'altro. Un gateway e un luogo, coincidenti fisicamente ma in realtà solo giustapposti, separati funzionalmente e sempre più indipendenti. In realtà le interdipendenze non mancano. È probabile che la globalizzazione economica abbia contribuito ad aumentare e radicalizzare i dualismi sociali ed economici che abbiamo identificato, così come ha senz'altro incentivato la spinta alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. L'esperienza delle altre città globali dimostra ampiamente come le attività qualificate del nodo tendano a sviluppare funzioni locali di servizio, a bassa qualificazione ed elevata flessibilità, che inevitabilmente finiscono per aumentare il dualismo sociale. Così come la localizzazione delle attività di nodo nei centri direzionali e nelle aree di maggior prestigio inducono processi di segmentazione territoriale che colpiscono, attraverso la gentrification, soprattutto i ceti sociali più deboli. Fenomeni non ancora così diffusi a Milano, ma già visibili in diverse aree della città, e che contribuiscono alla criticità della questione abitativa. L'attività di nodo, dunque, non solo consuma risorse della città, ma vi introduce dinamiche polarizzanti, che mettono in discussione la sua coesione sociale e territoriale. Siamo, dunque, di fronte a un luogo - la Milano di chi vi abita e vi lavora - che soltanto subisce la presenza del nodo, demandando ad altre risorse e competenze, quelle del governo locale e della società civile compassionevole, il compito della manutenzione urbana e sociale? È Milano, considerata dal punto di vista di chi la abita, soltanto il deposito in cui vengono scaricati i costi dell'attività di nodo? Oppure una parte consistente della sua funzione di nodo dipende anche dalla coesione sociale della città, dalla qualità dell'abitarvi e di viverci? La risposta a questi interrogativi non appare affatto facile. In passato, il legame tra crescita economica e coesione sociale era molto più evidente di quanto appaia oggi. La stabilità sociale costituiva un ingrediente fondamentale per mantenere in funzione i circuiti virtuosi dell'economia keynesiana, fondata sull'alimentazione costante della domanda sociale e sulla copertura dei rischi principali di povertà e indigenza. Oggi lo sviluppo produce disuguaglianze e dualismi sociali, premia la flessibilità e l'adattabilità piuttosto che la stabilità e la coesione. Con la globalizzazione è in atto anche una modificazione dei valori e delle aspettative sociali che alcuni, assumendo una posizione in parte nostalgica, hanno definito criticamente come una "corrosione del carattere", per segnalare l'importanza assunta oggi dalla capacità di gestire l'incertezza, di investire su se stessi e sulle proprie capacità, sulla forte individualizzazione e frantumazione dei legami sociali. Si può, tuttavia, ritenere che alcuni meccanismi di coesione sociale siano oggi necessari, soprattutto su base locale, proprio per aumentare l'attrattività e la competitività delle città globali e, in particolare, del nodo-Milano. Pur scaricando sul "luogo" alcune funzioni di servizio, infatti, anche le funzioni di nodo richiedono alcune precondizioni sociali che ne assicurino l'efficienza e l'efficacia. Il globale, per alcuni aspetti, riposa e cresce ancora sulla coesione del locale. Due aspetti appaiono, in questa prospettiva, di importanza cruciale. Il primo riguarda la capacità del nodo di attrarre risorse umane di eccellenza, non solo portatrici di competenze professionali ma anche di disponibilità all'investimento, al rischio, all'interconnessione nella rete globale. Su questo piano le strozzature del sistema milanese rischiano di penalizzare le attività del nodo, rendendo difficile la creazione di risorse umane locali e l'attrazione di quelle esterne. Milano resta, infatti, una città in cui è assai arduo, soprattutto per le nuove generazioni, costruire progetti e realizzare investimenti. La carenza di servizi sociali, la completa delega delle responsabilità di cura e di assistenza alle famiglie, le difficoltà abitative convergono insieme per allontanare i giovani e i giovani-adulti, per dissuaderli dal mettere in atto strategie di investimento, per isolarli entro un ambiente dominato da linguaggi, culture, abitudini di tipo tradizionale. Anche le istituzioni che maggiormente dovrebbero operare nella costruzione delle nuove risorse umane, come le Università, rischiano il ripiegamento su se stesse, la rinuncia a promuovere le eccellenze e le competenze richieste dall'internazionalizzazione crescente dell'economia milanese. Si pongono, qui, rilevanti problemi inerenti l'equità sociale, da un lato, e lo sviluppo delle competenze appropriate, dall'altro. In primo luogo, è evidente che un sistema locale fortemente polarizzato, offrendo alle nuove generazioni chance di vita assai diseguali, non consente una selezione e valorizzazione delle risorse umane fondate su meriti e capacità effettive: il sistema di mobilitazione delle risorse umane resta, da questo punto di vista, subottimale e inefficiente. In secondo luogo, vengono premiate le competenze settoriali, legate a posizioni e percorsi professionali già consolidati, con uno scarso orientamento alla qualità e all'innovazione. Disuguaglianze e conservatorismo rischiano di mantenere la funzione di gateway di Milano in una posizione subalterna rispetto ad altre città maggiormente capaci di creare e attrarre le risorse umane di eccellenza. Il secondo aspetto in cui la coesione sociale del luogo influisce sulla qualità del nodo riguarda la sicurezza urbana che, non a caso, entra sempre più frequentemente nell'agenda pubblica delle politiche locali, oltre che nel discorso dei media. A essa sono connessi non solo il problema dell'immigrazione e della crescente differenziazione etnica e culturale, ma anche i riflessi più profondi dell'inquietudine che afferra una parte significativa del ceto medio milanese e che si riflette nella diffusione del localismo, nel rifiuto del cosmopolitismo, ma anche nella privatizzazione degli spazi pubblici, nell'ossessione per la sicurezza individuale e collettiva. Fenomeni per alcuni versi inevitabili ma che, una volta radicalizzati e diffusi, mettono a repentaglio l'utilizzabilità degli spazi pubblici oppure costruiscono conflitti territoriali paralizzanti, cui conseguono politiche finalizzate al semplice occultamento delle conseguenze maggiormente negative. Se gran parte degli effetti negativi di queste dinamiche ricadono principalmente sulla cattiva qualità dello spazio urbano disponibile per la popolazione locale, un effetto più generale riguarda la cattiva integrazione di quelle popolazioni immigrate che, per un movimento ironico della storia, finiscono a Milano proprio a sostenere, con il loro lavoro di servizio, sia le attività di nodo, sia quelle connesse alla cura e all'accudimento. Una funzione di cerniera che difficilmente può essere sostenuta senza che la città offra minime condizioni di inserimento abitativo e lavorativo. Senza le quali l'immigrazione finisce per essere trattata riduttivamente come un problema di sicurezza pubblica e non di funzionamento della città, nella sua duplice natura di nodo e di luogo.

Che fare?

La cura delle condizioni che consentono la coesione sociale della città risponde, dunque, a diverse esigenze di equità sociale ma anche di miglioramento e qualificazione della funzione di gateway svolta. A ben vedere, l'integrazione di Milano nelle reti globali apre alla città due possibili opzioni. Da un lato, lo sviluppo di una funzione nodale sostanzialmente affrancata da legami sociali, che consuma le risorse economiche e il capitale sociale della città generando dualismi e squilibri sociali, la cui gestione non coinvolge, né deve coinvolgere, le "eccellenze" di cui la città è promotrice: si tratta del modello tipico della città americana, in cui i vantaggi acquisiti sul terreno della competitività e dell'attrattività verso l'esterno convivono con l'accrescersi delle disuguaglianze e delle disparità verso l'interno. Dall'altro, Milano può sviluppare una funzione di nodo che si mantiene in equilibrio con l'assetto interno della città, con il mantenimento di legami sociali ed economici relativamente stabili nel tempo: un modello in linea sostanziale non solo con l'eredità del passato (come abbiamo mostrato), ma che collegherebbe Milano al percorso di molte altre città globali europee. In ogni caso, quale che sia il modello che si realizzerà, è convinzione di chi scrive che alcune interdipendenze tra le funzioni di nodo e quelle connesse con il mantenimento della coesione sociale siano comunque destinate a esserci. Al punto tale che la disattenzione verso queste connessioni può compromettere, nel medio termine, la stessa competitività internazionale di Milano. Intervenire su queste criticità significa, dunque, non solo equilibrare meglio lo sviluppo verso l'esterno e la qualità interna della società urbana, ma anche ripensare il modo stesso di essere e proporsi come "nodo della rete globale". Le due questioni su cui abbiamo concentrato l'attenzione riguardano, per un verso, il sostegno alla formazione e attrazione delle risorse umane e, per l'altro, l'inserimento sociale della popolazione immigrata e il mantenimento della sicurezza urbana. Il primo punto è connesso alla possibilità di riequilibrare l'assetto demografico della città e dell'area metropolitana. Ma non solo. Un ulteriore compito riguarda il rinforzo delle capacità strategiche di investimento formativo e professionale. Cogliendo il nesso, segnalato più volte nelle pagine precedenti, tra investimento personale, disponibilità di risorse sia per l'individualizzazione dei percorsi di vita, sia per la progettualità personale (che passa attraverso l'autonomia abitativa, la possibilità di attrezzarsi per la flessibilità lavorativa senza rinunciare all'autonomia personale, la formazione di nuove famiglie), dotazione di servizi e aiuti per affrontare le fasi critiche. Oltre alle politiche specifiche da dedicare alla qualificazione delle opportunità formative offerte da Milano, qui si vuole indicare l'importanza che assumono in questa direzione altre politiche di tipo più sociale. Tra le prime, è fondamentale l'investimento nelle "eccellenze" formative, nella possibilità di prefigurare percorsi e condizioni che rendano la città punto di attrazione per giovani talenti (sia italiani che stranieri). L'eccellenza formativa deve, tuttavia, passare, perché la sua natura di investimento emerga in concreto e non finisca per costituire, invece, un'ulteriore area di privilegio e di rendita posizionale, attraverso una chiara politica di equalizzazione delle opportunità formative che privilegi i meriti e le motivazioni al posto delle garanzie economiche di partenza. Tra le politiche di natura più sociale sono rilevanti, innanzitutto, quelle finalizzate a sostenere e flessibilizzare il processo di autonomizzazione delle nuove generazioni, oggi strozzato dalle dinamiche confliggenti in atto nel mercato del lavoro e nel mercato della casa (prestito d'onore, sostegno all'acquisizione della prima casa, allo sviluppo di carriere lavorative flessibili, ecc.). Ma anche le politiche finalizzate alle pari opportunità possono operare utilmente nella stessa direzione, rendendo meno difficili i percorsi familiari e procreativi e rendendo più facile la loro conciliazione con quelli formativi e professionali (sviluppo dei servizi per l'infanzia e la vecchiaia, conciliazione tra tempo di lavoro e tempo per la famiglia, ecc.). Politiche e interventi finalizzati a sostenere l'individualizzazione delle carriere e delle traiettorie di vita, a cui possono concorrere operatori pubblici e privati, misure amministrative e iniziative imprenditoriali. Il secondo punto riguarda la ricostruzione delle condizioni sociali che consentono l'assorbimento e la diluizione delle tensioni e delle problematiche connesse a un'immigrazione tanto necessaria e funzionale, quanto rapida e non governata. Qui vale il principio che l'inserimento sociale, abitativo e professionale richieda un'attenzione bifronte: ai soggetti dell'immigrazione da un lato, e alla popolazione che la ospita, dall'altro. Senza lo sviluppo di un investimento pubblico sulle condizioni della convivenza e della coabitazione, rischia di predominare la tendenza, da entrambe le parti, all'autosegregazione, all'intolleranza reciproca. Le necessità materiali qui dettano l'agenda delle politiche in modo chiaro: forme di sostegno all'acquisizione della casa, all'uscita dall'irregolarità lavorativa, politiche territoriali che inquadrino le direzioni e l'intensità dei nuovi insediamenti. Se la coesione sociale di Milano è oggi minacciata ma non compromessa, si tratta di operare perché le funzioni tradizionali di diluizione delle tensioni sociali, che la città ha saputo sviluppare in passato, siano rinnovate e ridefinite al fine di sostenere in modo adeguato le sfide attuali. La crescita delle funzioni nodali di Milano apre due scenari: uno di progressivo sganciamento tra le funzioni di gateway e la città abitata, l'altro di costante interdipendenza tra le due dimensioni. Se prevarrà la prima soluzione, è probabile che, nel medio lungo periodo, anche il ruolo di Milano come città globale abbia a risentirne negativamente. La sfida è aperta.



di Costanzo Ranci

Docente di Architettura, Politecnico, Milano.

Alla raccolta e all'organizzazione dei dati ha collaborato Stefania Cerea, che ringrazio vivamente dell'aiuto prestato.

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